Percorsi di violenza: il caso delle lavoratrici domestiche etiopi in Medio Oriente
Abstract
Se chiedete ad una ragazza etiope per quale motivo vuole emigrare e lavorare in Medio Oriente, la risposta più comune è: “per migliorare la mia vita e quella dei miei familiari”.
Con una popolazione di quasi 120 milioni di persone, il 40% delle quali ha meno di 35 anni, l’Etiopia è la seconda nazione più popolosa del continente africano. Il locale Ministero del Lavoro e degli Affari Sociali stima che nel 2019 fossero circa 11 milioni i giovani in cerca di lavoro. Un numero che continuerà a crescere nei prossimi anni con l’aumento della popolazione e dei tassi di iscrizione scolastica.
L’offerta di lavoro etiope, però, non va oltre un milione di posti all’anno. Non sorprende dunque che giovani uomini e donne continuino a lasciare il paese in cerca di opportunità lavorative, nell’Africa orientale o in regioni più lontane. Nel corso degli ultimi tre decenni, l’Etiopia ha assistito ad un alto livello di urbanizzazione con un forte aumento dei tassi di migrazione interna, principalmente dalle zone rurali a quelle urbane. L’Etiopia, del resto, dipende fortemente dall’agricoltura di sussistenza: l’85% della popolazione vive in zone rurali, dove le opportunità di lavoro sono scarse in particolare per le ragazze. Queste ultime hanno meno possibilità di accedere all’istruzione formale e maggiori probabilità di sposarsi in giovane età rispetto ai loro colleghi maschi. Allo stesso tempo le famiglie considerano le ragazze come un canale privilegiato per migliorare le condizioni di vita comunitarie. Così sono notevoli le pressioni esercitate proprio sulle ragazze affinché vadano a cercare lavoro nei grandi centri urbani per poi inviare gran parte dei guadagni a casa.
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L'articolo completo è disponibile sul sito del Torino World Affairs Institute (T.wai).
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